LA QUESTIONE DELLA LINGUA IN ITALIA

Innanzitutto è opportuno dire che nessuna nazione dell’Europa e forse del mondo è stata attraversata, come l’Italia, da un’eterna questione della lingua. Le ragioni di questo fatto sono tante, ma la principale è che la penisola italiana, a differenza delle altre nazioni, non ha mai avuto un centro culturale veramente predominante, come per esempio: Parigi in Francia.Non avendo avuto mai un centro culturale che dettasse legge, ha avuto, però, il privilegio di poter contare sempre su uomini di grandissima intelligenza ed immensa cultura, che, a loro volta, sono stati il prodotto di una civiltà storica. Sicchè, quando sul grande ceppo latino,tra i secoli IX e XII d. C., sorsero le lingue romanze o neolatine (il portoghese, lo spagnolo, l’italiano e il francese), l’Italia tra i secoli XII, XIII e XIV subito si distinse dando vita ad una civiltà che non aveva l’eguale in Europa.Basta pensare alle Repubbliche marinare (Venezia, Genova, Pisa e Amalfi) e ai Comuni (Firenze, Lucca, Milano, Napoli e Bologna, dove ebbe origine la prima Università), per rendersi conto a che punto di ricchezza, di bellezza e di cultura giunse l’Italia tra i secoli XII e XIV. Santi come San Francesco e San Tommaso, pittori come Giotto, pochi come Jacopone da Todi, Guinizzelli, Cavalcanti e Dante e ancor poeti come quelli della Scuola Siciliana e poi Petrarca e Boccaccio nascono e producono nel territorio della penisola italiana tra i secoli XII e XIV.

Che cosa avviene nel campo della lingua? Dante, nel De Vulgari eloquentia (1304) teorizza “lo stil novo ,” vale a dire un concetto di lingua che non doveva avere per base nessuna lingua regionale, in quanto tutte, le trovava rozze. Sostiene egli, per primo, che la lingua italiana doveva essere una lingua dal tono elegantissimo, purissimo e dolcissimo. Usando lo Stil Novo”, scrive prima la “Vita Nuova”e poi la “Commedia”, che Boccaccio chiamerà divina. Col titolo di “Divina Commedia”, la cominciarono a stampare gli editori del Cinquecento e così si continua a stampare ancora oggi. Con Dante, il vero e grande padre della lingua italiana, il quale aveva saputo dare al plurilinguismo un’unità linguistica di altissimo livello, basata sul fiorentino, comincia in Italia la questione della Lingua che si protrarrà sino ai giorni nostri e forse non terminerà mai.Il perché è facile capirlo.Dante era riuscito a compiere il miracolo di creare una lingua straordinaria. Aveva creato una lingua di alto livello, avente come base la lingua fiorentina.Petrarca ne continua l’opera, arrivando, però, a spargere il plurilinguismo dantesco per giungere ad un raffinatissimo monolinguismo. Libera il linguaggio di Dante da tutti i suoni realistici e duri per arrivare ad una dolcezza melodica raffinatissima di cui non c’è uguale nel mondo. Quello che fece Petrarca in poesia, Boccaccio lo farà nella prosa. Petrarca e Boccaccio sono, cosi, i responsabili della lingua italiana, che scorre con una eleganzi e con una surrealità assoluta anche attraverso la bocca dei parlanti di oggi.A questo punto si aprì uno iato incolmabile tra la lingua letteraria italiana e i molteplici registri regionali, chiamati dialetti, parlati dalle masse popolari delle varie regioni italiane il declinio della lingua italiana, che si potrarrà per tutti i secoli della sua storia; da una parte uomini di grande, sublime e raffinata cultura, come il resto dell’Europa e del mondo non ha mai avuto, e dall’altra una massa di popolo delle varie regioni italiane, che parlavano il cosi detto dialetto e che non sapevano leggere e capire quel pugno di uomini addottrinati. Il XV secolo fu il secolo dell’Umanesimo che, sulle orme del Petrarca e del Boccaccio, giunse ad un’espressione condita di Latino e, pertanto, ancora più lontana dalla lingua latina, parlata dal popolo delle varie regioni italiane.I grandi scrittori del Quattrocento cominciarono a sentire, così, il disagio di scrivere senza essere letti, se non dagli addetti ai lavori. Cominciarono essi, in qualche modo, ad ammettere nella loro scrittura qualche parola del linguaggio usato dal popolo. Si pensi, specialmente, al Pulci, al Sannazzaro e allo stesso Lorenzo de’Medici.

La vera guerra linguistica, però, in Italia scoppiò nel Cinquecento. Fu questo il secolo in cui la questione della lingua si dispiegò in modo approfondito nella penisola.Si pensi al libro di Pietro Bembo Prosa della volgar lingua (1525), ed a Il Corteggiano del Castiglione e alle correzioni linguistiche che apporta l’Ariosto all’Orlando Furioso tra l’edizione del 1516, quella del 1521 e quella del 1532.Il Bembo, nel libro della Prosa della volgar língua, ritenuta la prima grammatica della lingua italiana, sostiene che si doveva scrivere prendendo a modello l’elegante monolinguismo del Petrarca. Censura egli, perfino, Dante per avere usato vocaboli troppo realistici e talvolta di cattivo gusto.Il Castiglione, invece, sosteneva che la lingua italiana non si doveva limitare ad imitare il Petrarca, ma doveva, per così dire, saper accogliere tutto quanto di buono avevano creato e creavano, dal punto di vista linguistico, gli scrittori che avevano operato e operavano nelle varie corti italiane evidente che il Castiglione, come uomo di corte, mirava ad un compromesso linguistico di alto livello, senza escludere gli apposti provenienti dagli scrittori, che vivevano nelle corti, cioè nelle istituzioni politiche e culturali che facevano gloriosa la civiltà dell’ Italia del secolo XVI. Una posizione diversa da quella del Bembo e del Castiglione venne difesa da Niccolò Machiavelli nel famoso Dialogo della lingua, composto intorno al 1520, dove sostiene che la lingua italiana doveva essere quella che si parlava a Firenze.Chi vinse, però, fu il Bembo e la lingua italiana si sviluppò col marchio del Petrarca. Questo fatto, però, doveva avere come consequenza l’allargamento dello iato tra la lingua letteraria, che il popolo delle varie regioni italiane non poteva riconoscere come sua. Ciò spiega che, non per nulla, proprio all’inizio del Cinquecento, insieme con la lingua letteraria nella letteratura italiana, comincia a farsi largo la creazione artistica in dialetto.Si pensi, solo per fare qualche esempio, ad Angelo Beolco, detto il Ruzante (1502-1542) che compone delle opere in dialetto veneto di alto valore come la Betìa, Bìlora e Ménego, intitolati Dialoghi in lingua rustica, per non parlare delle sue commedie dialettali Moscheta e Fiorina.

E nel Seicento anche abbiamo alcuni capolavori in lingua dialettale. Si pensi a Giambattista Basile (1575-1632) e a Giulio Cesare Cortese (1575-1627).

Come si vede, a cominciare dal Cinquecento, la letteratura italiana si sviluppa percorrendo due strade: una la lingua italiana letteraria di alto livello e un’altra lingua dialettale di non meno alto livello. Questo sarà il suo destino sino ad oggi. E a scanso di equivoci diremo che la creazione letteraria in dialetto non nasce da menti incolte, bensì da menti coltissime che sentono, però, la vocazione di esprimersi in dialetto.

A questo punto, ci pare inutile soffermarci dettagliatamente sulla questione della lingua in Italia durante i secoli XVII e XVIII. Basta dire solamente che la questione della lingua nella penisola è stata sempre viva nel secolo del Barocco e in quello dell’Arcadia e dell’Illuminismo.

Per non citare altri, citiamo solo il poeta arcade-illuminista Vincenzo Monti (1754 - 1828), che si mise in polemica col Cesari e i puristi, e compose la famosa Proposta di alcune correzioni, ed aggiunte al Vocabolario della Crusca,scritta dal 1817 al 1826 e comprendente ben sette volumi.Il Monti in Italia fu il primo a difendere la lingua dell’uso, vale a dire che non ci debba essere differenza tra la lingua che si parla e quella che si scrive.

Fu, però, all’inizio del secolo XIX che avvampò la polemica tra i seguaci del Classicismo e i seguaci del Romanticismo.Questa fu una battaglia epica e la vinsero i romantici con a capo Alessandro Manzoni (1785- 1873).

Quale lingua usò nell’edizione de I Promessi Sposi del 1840 il nostro Manzoni?

Per rispondere a questa domanda è necessario tener presente che il Manzoni esordì come scrittore e come poeta da illuminista e quindi come classicista sotto l’influenza del Monti. I componimenti giovanili, composti prima della conversione al cattolicesimo (1810), e quelli composti tra il 1812 e 1822: Gli Inni Sacri, Le Due tragedie, Il Conte di Carmagnola e L’Adelchi e il Romanzo Fermo e Lucia, li scrisse con un linguaggio classicheggiante, nonostante pure avesse aderito al Romanticismo tra il 1816 e 1818, l’anno della fondazione del “Conciliatore”, l’organo dei romantici italiani. Addirittura l’edizione de I Promessi Sposi del 1827 risente della sua educazione linguistica classicheggiante. Diversa è, invece, la lingua dell’edizione de I Promessi Sposi del 1840.

Quale fu la ragione del mutamento della lingua in questa edizione?La ragione fu soprattutto politica. L’Italia si avviava al Risorgimento politico nazionale.Nel 1828, erano scoppiati i primi moti popolari contro gli austriaci. Il poeta, come patriotta e, nonostante, cattolico convintissimo, non seguì la posizione della Chiesa, la quale si opponeva all’indipendenza e all’unità politica dell’Italia.Era convinto che era necessario che tutti gli italiani parlassero la stessa lingua. Il popolo parlava il dialetto e l’italiano lo parlavano solo pochi letterati, che, a loro volta, parlavano un italiano classico, non capito dalla massa.Ecco perchè, diceva il nostro Lombardo, bisognava inventare una lingua italiana, la quale potesse essere intesa da tutte le popolazioni italiane dal nord, dal centro e dal sud.

 Come inventarla?Di qua la sua scelta di “sciacquare i panni nell’Arno”, vale a dire di correggere la lingua de I Promessi Sposi del 1827, adattandola alla lingua fiorentina perché, secondo lui, se si voleva creare in Italia una lingua popolare unitaria, non c’era altro da fare che estendere la lingua fiorentina a tutta l’Italia, in quanto solo a Firenze il popolo aveva parlato sempre l’italiano e lo continuava a parlare.Ma il problema della creazione unitaria della lingua italiana era molto più complesso di quanto ritenesse il Manzoni. In fondo egli pensava che fosse semplice fare adottare dalle polopazioni italiane la lingua che parlava il popolo fiorentino. È chiaro che la soluzione che il Manzoni cercò di dare all’annosa questione della lingua in Italia fu una soluzione astratta.Far parlare ad un veneto o ad un siciliano o ad un pugliese o a un lucano la lingua che si parlava a Firenze era lo stesso che gli si volesse far parlare l’inglese o il francese o il tedesco o la lingua che parlavano i letterati colti italiani.E chi avviò a soluzione vera su una base realistica e scientifica la questione della lingua in Italia fu un grande glottologo: Ascoli Graziadio Isaia (1829-1907).Egli, nato a Gorizia, fu un grande studioso di lingue sanscritiche ed ebbe il merito di creare la prima cattedra di linguistica scientifica comparata in Italia, a Milano, della quale ne fu anche titolare. L’Ascoli, in parole povere, dopo aver individuato le ragioni storiche, avendo permesso alla Francia ed alla Germania di aver un idioma nazionale, sosteneva che nessuna lingua può avere una vera base se non si fonda su ciò che essa è stata capace di creare nei secoli per via della scrittura. Perciò, secondo lui, la lingua unitaria italiana doveva avere per base, unica e sola, la scrittura che tutti gli scrittori italiani, in qualunque regione fossero nati e avessero operato, avevano lasciato ai posteri. Quindi era un falso problema quello di dire che la lingua italiana dovesse essere popolare e colta perché non poteva essere che quella che gli scrittori italiani avevano creata lungo i secoli, diceva il grande illustre:

Nessun paese, in nessun tempo, supera o raggiunge la gloria, se badiamo al contingente che spetta a ciascun popolo nella sacra falange degli uomini grandi. Ma la proposizione fra il numero di questi e gli studi dei minori, che li secondino con l’opera assidua e diffusa, è smisuratamente diversa fra l’Italia ed altri paesi civili, e in specie fra l’Italia e la Germania, sempre, però, in danno dell’Italia”. Ed aggiungeva:Qui vi furono e vi sono per tutte quante le discipline dei veri maestri; ma la greggia di veri discepoli è sempre mancata.Partendo da queste idee, egli giungeva alla conclusione che l’unità linguistica al popolo italiano poteva derivare solamente dall’innalzamento culturale dello stesso popolo. Solo il popolo italiano poteva sperare di essere illuminato da una luce linguistica unitaria che risplendesse per tutti gli italiani di tutte le regioni e di tutte le classi sociali.Questa fu la grande lezione scientifica ed umana che Ascoli Graziadio Isaia lasciò al popolo italiano alla fine del XIX secolo. E questa lezione gli Italiani del XX secolo non l’hanno dimenticata, anzi si sono sforzati di metterla lingüisticamente in pratica. E noi siamo fieri di trasmetterla ai nostri allievi, sia se operiamo in Italia e sia se operiamo all’estero.

BIBLIOGRAFIA

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Nell’800 la questione della lingua registra un nuovo capitolo grazie al Purismo, un movimento promosso dal sacerdote veronese Antonio Cesari. Cesari pubblicò una nuova edizione del Vocabolario della Crusca che comprendeva solo scrittori del Trecento, anche di poca o minima importanza, ma si trattava di una posizione di retroguardia senza futuro. Pochi anni dopo (1816), la polemica tra classicisti e romantici mostrò lo stretto legame tra lingua e politica. I classicisti erano i paladini di una lingua della tradizione che aveva la sua base nelle letterature classiche, ma che comunque prendeva a modello gli autori italiani fino al Settecento, con aperture al moderno per quanto riguardava la distinzione tra scritto e parlato e la necessità, sostenuta da Vincenzo Monti, di introdurre parole nuove soprattutto per la scienza e la tecnica. A volte, questo modello presenta anche una forte valenza patriottica (ad esempio con Pietro Giordani). I romantici (come il Di Breme), sostenitori del nuovo modo di far poesia che si era affermato in Europa, si rifacevano, invece, al Cesarotti soprattutto per l’idea che la lingua è una realtà in continua evoluzione. Sottolineavano i rapporti lingua-nazione e davano diritto di cittadinanza anche ai dialetti che, come mostrava il Porta con il milanese, erano paragonabili alla lingua. Leopardi fece osservazioni acute sul concetto di «scarto» della lingua poetica rispetto alla lingua standard (l’effetto di distanziamento, cioè, della lingua poetica rispetto al parlato, distanziamento che è funzione della diversità di registri stilistici) e dichiarò la sua preferenza per l’italiano, idioma naturalmente poetico, perché più antico, rispetto al francese, troppo evoluto e adatto per questo a esprimere solo concetti scientifici.

Nell’ambito del Romanticismo, doveva maturare anche la presa di posizione del Manzoni: la necessità pratica di trovare una lingua idonea per il romanzo che stava scrivendo lo spinse, infatti, ad occuparsi del problema teorico. Il Fermo e Lucia (1821-23, prima stesura dei futuri Promessi sposi), redatto in una lingua fatta di toscano e di milanese con latinismi e francesismi, non lo soddisfa; Manzoni prepara allora la stesura successiva (I promessi sposi del 1827) sulla base del toscano letterario riproposto dal vocabolario del Cesari. Ancora scontento, dopo un soggiorno a Firenze, arriva alla conclusione che l’unica lingua per una prosa moderna sia il fiorentino parlato dalle persone colte e, uniformandosi ad esso, compie una revisione non solo linguistica, ma anche stilistica per la nuova edizione del romanzo che sarà pronta solo nel 1840-42.

La decisione è frutto di un’approfondita riflessione che ritroviamo in opere mai completate né pubblicate nelle quali lo scrittore giustifica la sua scelta col fatto che fiorentina è stata la lingua della letteratura, unico elemento di coesione degli Italiani attraverso i secoli. Al centro della meditazione di Manzoni c’è l’idea romantica, e quindi anticlassicistica, che la lingua è regolata dall’uso e che essa è la base dell’identità nazionale di un popolo. I promessi sposi, che ebbero uno straordinario successo anche a livello popolare, si proponeva quindi, pochi anni prima delle guerre d’indipendenza, come l’opera in cui tutti gli Italiani potevano riconoscersi. Questo è il motivo per cui dopo l’Unità, nel 1868, il governo pensò che il problema di trovare una lingua unitaria, vitale per amalgamare gli Italiani secondo una prospettiva romantica e centralistica, potesse trovare una soluzione proprio grazie al Manzoni. Lo scrittore fu nominato presidente di una commissione paritetica di milanesi e fiorentini, che doveva operare per diffondere la lingua parlata a Firenze, e si fece promotore di alcune proposte come mandare nelle varie regioni insegnanti elementari toscani o preparare vocabolari della lingua fiorentina. Tuttavia, pur essendo Firenze capitale d’Italia, il progetto manzoniano si rivelò di difficile attuazione.

Tutto questo, comunque, determinò il riaccendersi del dibattito sulla lingua, in un momento cruciale per l’Italia, quando dovevano essere gettate le basi per la creazione di uno Stato moderno. I dibattiti sulla lingua, del resto, come pensava Gramsci, non sono mai discussioni accademiche di dotti, ma sono il sintomo di grandi mutamenti della società. I primi fermenti si manifestarono all’interno stesso della commissione. Il gruppo dei fiorentini, tradendo il Manzoni, riproponeva come modello la lingua degli scrittori. Si tentarono anche dei compromessi: il Tommaseo, ad esempio, pensava al toscano parlato nelle campagne perché più conservativo e quindi più vicino alla lingua degli autori antichi. Diatribe del genere avevano comunque fatto il loro tempo. Ormai il problema linguistico andava affrontato alla luce della moderna indagine storica e comparativistica.

Chi si fece portavoce di queste istanze fu Graziadio Isaia Ascoli, che intervenne autorevolmente nella polemica nel 1873, quando il Manzoni ormai era morto, nel Proemio del primo numero dell’«Archivio glottologico italiano», la rivista specialistica da lui fondata. Partendo dal rapporto tra lingua e società e dalla realtà secolare dei dialetti, Ascoli dichiarava senza mezzi termini che la soluzione manzoniana era inadeguata oltre che impraticabile. L’Italia aveva bisogno non di una lingua colloquiale, provinciale, che rischiava di essere ridicola, com’era il fiorentino, che aveva dato già prove poco convincenti nei numerosi epigoni del Manzoni, ma di una lingua duttile e agile, adatta anche a trattare argomenti culturali. La diffusione di questa lingua, però, non si poteva ottenere con disposizioni ministeriali e neppure dall’oggi al domani, ma solo grazie all’istruzione, all’ammodernamento delle istituzioni culturali e al progresso scientifico. Bisognava tener conto della realtà, evitando fughe in avanti; pertanto Ascoli consigliava di partire dal dialetto nell’insegnamento elementare e di usare l’italiano sovraregionale che pur esisteva. Non si capiva in nome di che cosa si dovesse dire anello, come dicevano i fiorentini, invece di ditale, come dicevano tutti gli altri, o novo (che veniva ostentato nel titolo del vocabolario di Giorgini-Broglio ispirato ai criteri manzoniani, il Novo vocabolario della lingua italiana secondo l’uso di Firenze) invece di nuovo, che è l’esito normale in Italia della o breve latina in sillaba aperta.

Il modello manzoniano fu bollato anche dal toscano Carducci che lo attaccò, come «manzonismo degli stenterelli», in nome di una lingua, soprattutto nella poesia, classicamente atteggiata. Tuttavia ebbe fortuna anche perché, se era difficile diffonderlo come lingua d’uso tra tutti gli Italiani, era relativamente facile imitarlo nella scrittura. In particolare la lingua del Manzoni ebbe molto successo, soprattutto tra i maestri elementari, grazie all’opera di De Amicis L’idioma gentile (1905), che presentava delle letture in buona lingua toscana, insegnando a evitare lo stile troppo aulico.

Comunque nella seconda parte dell’Ottocento il motivo principale della scarsa conoscenza dell’italiano tra la popolazione è l’analfabetismo. Basteranno poche cifre per avere un’idea della situazione. Nel 1861 l’80% della popolazione non sapeva leggere né scrivere; dieci anni dopo il 60% dei bambini in età scolare si sottraeva all’obbligo scolastico. I maestri elementari, d’altra parte, soprattutto nelle campagne, erano poco colti e usavano con i loro alunni generalmente il dialetto. Non c’è da stupirsi se su una popolazione di 25 milioni di abitanti, a parte i toscani, i romani e gli alfabetizzati, coloro che erano in grado di parlare l’italiano non erano più di 700.000. Se le cose migliorarono, sia pure lentamente, fu grazie al servizio militare e alle migrazioni interne dei lavoratori e degli impiegati statali. Ma anche l’opera lirica, l’unica forma di acculturazione per chi non era in grado di leggere i libri, risultò determinante nella diffusione della lingua italiana. Quanto agli scrittori, il problema di che lingua usare non si poneva per i poeti o per quei prosatori come D’Annunzio che optavano per uno stile lirico e musicale, destinato a pochi raffinati lettori; chi invece voleva rivolgersi a un vasto pubblico non poteva fare riferimento alla tradizione, troppo letteraria e staccata dalla vita quotidiana, ma doveva costruirsi un proprio strumento espressivo. Le soluzioni furono diverse, anche se in genere tutti fecero i conti con il dialetto che era in Italia l’unica lingua viva. Se Verga, ad esempio, inventò una lingua che era italiana ma fortemente venata di siciliano, Fogazzaro decise di ricorrere talvolta al dialetto puro nei dialoghi che dovevano riprodurre direttamente la realtà C’è da dire che un contributo notevole allo svecchiamento della prosa venne dal giornalismo, che dopo l’Unità d’Italia ebbe un grande impulso. Spesso gli stessi scrittori, come Matilde Serao, lavoravano per i giornali e quindi dovevano ogni giorno misurarsi con la necessità di farsi capire e attirare la gente comune con uno stile accattivante. I giornalisti cominciarono quindi a svolgere quel ruolo di creatori di neologismi diventato oggi fondamentale. Essi elaborarono la lingua cosiddetta borghese, di registro medio, adatta alla comunicazione – che è anche la lingua di Pirandello – che contribuì non poco alla diffusione dell’italiano almeno tra quegli strati della popolazione che potevano accedere ai mezzi di informazione. In questo lungo periodo, che comprende il Risorgimento e lo sforzo postunitario per organizzare lo Stato su basi moderne, si osserva un’ulteriore diminuzione dell’importanza dell’Italia a livello europeo, anche nei settori in cui aveva sempre eccelso, le arti e la musica. Per quanto riguarda le caratteristiche della lingua in questo periodo possiamo segnalare alcune incertezze nei plurali dei sostantivi in –cogo (per cui il Manzoni si sente autorizzato a preferire traffichi, mentre nel corso del secolo guadagna terreno la versione con palatale, traffici). Ancora Manzoni, e anche Leopardi e Tommaseo, usano tranquillamente gli per loro (dativo plurale), una forma più spigliata che ora si sta diffondendo sempre di più. Si usa spesso (lo fa, ad esempio, Leopardi) anche il superlativo con l’articolo ripetuto sul modello del francese («l’uomo il più certo»). Al manzonismo si deve la moda di dire «si va» invece di «andiamo», tipica del fiorentino parlato. Un fenomeno che è documentato dallo scarso numero degli italianismi che si diffondono all’estero. Alcuni di questi riguardano ancora la musica e sono esportati da Stendhal, un grande ammiratore del nostro Paese. Si tratta di maestro, libretto, impresario, diva, fiasco. Altre parole che si riferiscono alla realtà italiana vengono conosciute attraverso i viaggi, ad esempio fata morgana, pellagra, confetti (dolci tipici del carnevale romano). Dopo la metà del secolo attraversano le Alpi oltre a risotto, che designa un celebre piatto milanese, anche irredentismo, che indica il movimento politico che si proponeva di liberare le terre soggette all’Austria, mattoide, detto di persona che si comporta in modo imprevedibile, un termine desunto dalla terminologia psichiatrica di Lombroso. Ci sono poi i mali tipicamente italiani come la malaria, malattia endemica delle aree paludose, e la mafia, che in Sicilia si rafforza grazie alla diffidenza nei confronti del nuovo Stato unitario.

Il lessico si amplia moltissimo grazie ai nuovi termini dovuti ai cambiamenti nella vita politica e sociale, allo sviluppo straordinario delle scienze, della tecnica e del giornalismo che portano un’accelerazione generale nell’esistenza favorita anche dall’aumento dei traffici, dei contatti, dei viaggi.

Molti termini riguardano i partiti politici, come liberale, destra (forze politiche conservatrici), sinistra (forze politiche progressiste), i cui rappresentanti nel Parlamento siedono rispettivamente a destra e a sinistra del presidente. Si tratta di latinismi come lo è plebiscito, comparso già nel 1852, che indica un istituto ampiamente usato da Cavour nella politica delle annessioni che portò all’Unità d’Italia. Altre voci sono bocciare (respingere una legge con una votazione), intransigente, ostruzionismo, libertario, che si diffondono alla fine del secolo. Lo sviluppo dell’economia capitalistica fa importare dalla Francia tasso, montante, libero scambio, mentre boicottare, inflazione, banconota, trade-mark («marchio di fabbrica») sono tutti anglicismi. Assegno bancario compare solo nel 1892, perché per vari anni si preferisce usare chèque (inglese check). Con il capitalismo si impone anche la questione sociale con tutta una serie di nuove voci come rosso (aderente a un partito di sinistra), sciopero, serrata, sabotare.

Se la parola burocrazia era già entrata nel Settecento, ora l’organizzazione dello Stato sempre più complessa produce nuovi termini, che indicano ad esempio istituti che rispondono a precise esigenze sociali, come il brefotrofio per i bambini abbandonati (1819), il manicomio per i malati di mente (1834). Si tratta in entrambi i casi di grecismi, come il più antico orfanotrofio, introdotti come eufemismi per evitare denominazioni troppo dure. E uno Stato che si preoccupa dei bisogni dei cittadini istituisce, nella seconda metà del secolo, anche il vigile.

Non si contano i termini dovuti a un progresso scientifico che raggiunge livelli mai visti prima. Ci limitiamo a citare per la chimica i vari elementi, come il cloro, il calcio, il sodio e inoltre la paraffina e la morfina, la dolomite; per la medicina i nomi di alcune malattie che ora si cominciano a studiare, quasi sempre derivati dal greco, come difterite e cirrosi. Profilassi (e l’aggettivo profilattico), che indica le misure per combattere le malattie infettive, e omeopatia (1828), un metodo di cura che si basa sulla somministrazione in minime dosi di sostanze che nell’individuo sano provocano gli stessi sintomi della malattia, sono anch’esse parole nate in questi anni. Il progresso della scienza permette innumerevoli applicazioni tecniche e consente la nascita delle relative denominazioni. Basterà ricordare treno, che è un francesismo, e i termini connessi come carrozza, vettura e locomotiva; strada ferrata, che poi diventerà ferrovia, è un calco dal tedesco Eisenbahn (Bahn = «strada», Eisen = «ferro»); dining-car (1869) è invece una voce inglese che sarà poi sostituita da vagone ristorante (modellato sul francese wagon-restaurant). Ci sono poi cliché, il nome della matrice zincografica per illustrazioni, dagherrotipo (1840), a cui succederà fotografia, fonografo (1875), che indica un dispositivo per la riproduzione dei suoni da cui si sviluppa il grammofono (1908), automobile (1892), bicicletta (1898), cinematografo (1898), tutti francesismi, a parte fonografo che viene dall’Inghilterra.

La lingua francese gioca ancora un ruolo importante nel settore dell’abbigliamento, nonostante la concorrenza dell’inglese. Entrano così nella lingua italiana blusa, paltò, bretella (unisex), nonché i nomi di alcuni tessuti come cretonne, picchè, popeline. Ma la terminologia della moda maschile si deve quasi tutta all’Inghilterra. A parte jersey, che è una giacca o un mantello di maglia più adatto per le signore, si comincia con dandy che vuol dire «elegantone», e si continua con plaid, mantello di lana a quadri indossato dagli scozzesi, waterproof (1868), sostituito poi da impermeabile, tight (1870), abito da cerimonia per uomo, smoking, abito adatto per il salotto dei fumatori (1888), pigiama, che è una parola di origine persiana. Non tutto però viene dalla Francia e dall’Inghilterra, come nel caso del boa, una sciarpa femminile fatta di piume di struzzo, molto richiesta verso la metà del secolo.

Si intensifica la vita sociale e quindi diventano di moda i sigari e le sigarette. Se si vuole mangiare in modo raffinato bisogna servirsi al solito di parole francesi. Sono francesismi ristorante, menu e i nomi di tutta una serie di nuovi piatti: consommé, scaloppa, omelette, maionese, purée, vol-au-vent, besciamella, gatò (dolce di mandorle), cognac. La cucina inglese, nonostante non goda di una buona fama, nell’Ottocento non è da sottovalutare. A parte il gin, il whisky e il brandy, tutti termini degli anni Venti, abbiamo il rosbif e il più sbrigativo sandwich (1872), che si può gustare anche nel corso di un picknick (1895); non solo, dall’Inghilterra viene anche il consiglio di essere vegetariani (1895).

Lo sport può essere considerato la novità del secolo, e l’Inghilterra è il Paese dove è più praticato; questo è il motivo per cui in questo settore abbondano gli anglicismi. Entrano così in Italia non solo il termine sport, ma, nella seconda metà del secolo, anche foot-ball, tennis, baseball, cricket, e vari altri termini legati all’attività sportiva come record («primato»), match («gara»), trainer («allenatore»). Invece canottaggio, pattinare, ciclismo sono parole francesi.

La grande quantità di francesismi e di anglicismi, talvolta esiti di parole latine, è la prova evidente del ruolo di primo piano svolto da Francia e Inghilterra nel secolo XIX. A completare in parte quanto si è detto in precedenza si possono citare altri francesismi che riguardano campi diversi. Entrati nella forma originaria, troviamo claque («gruppo di persone reclutato per applaudire»), matinée («spettacolo teatrale che ha luogo al mattino o al pomeriggio»), chic («di una eleganza raffinata»), élite («la parte più autorevole di un gruppo»), eclatante («sensazionale»), habitué («frequentatore o cliente assiduo»), réclame. Adattate all’italiano sono invece parole come attualità, scuole secondarie, massaggio. Tra gli anglicismi possiamo ancora ricordare humour («piacevole ironia») e spleen («noia»), bull-dog, pointer, setter, bridge, copyright («proprietà letteraria»), leader («guida di un partito o di un movimento»), meeting («riunione») e altri che facilmente hanno assunto forma italiana perché formati da elementi latini: di colore, conforto, doppio gioco, eccentrico, resistenza passiva. forestierismi provenienti da altri Paesi, invece, sono pochi. Sono germanismi di origine latina antisemita e obiettivo, è un ispanismo intransigente (1873), coniato per indicare i repubblicani federalisti. È un termine hindi, mediato dall’inglese, giungla; è portoghese veranda. Nirvana (condizione dovuta all’assenza di ogni sensazione), veicolato da Schopenhauer, è una parola sanscrita. Harakiri, il suicidio rituale che si pratica in Giappone, viene conosciuto grazie al Piacere (1889) di D’Annunzio.

Abbastanza significativo il numero delle voci popolari provenienti da varie regioni. Sono piemontesi cicchetto, grana, arrangiarsi, bocciare; lombardo panettone; veneti vestaglia e ciao; napoletani cafone, camorra, omertà; siciliana mafia. Un fenomeno interessante è dato da parole che cambiano categoria grammaticale, in genere per influenza francese: così commerciante, industriale, domestico diventano sostantivi.

Da segnalare la produttività di alcuni suffissi: –logia, che troviamo in glottologia e paleontologia; –oide, presente in termini scientifici: alcaloide, asteroide; –izzare, che si trova in termini burocratici modellati sul francese: centralizzare, monopolizzare, utilizzare; deverbali di derivazione immediata specie nel linguaggio burocratico: ammanco, spreco, consegna; composti di tipo imperativale: paracadute, paralume, schiaccianoci.

Innumerevoli i nomi in –ismo che indicano atteggiamenti del pensiero. Questa è un’epoca, del resto, che vede nascere molti movimenti (non dimentichiamo che Capuana nel 1898 scrisse un saggio intitolato Gli ‘ismi’ contemporanei). Per designare chi appartiene a un gruppo o a un movimento si conia il termine in –ista: socialismo / socialista, comunismo / comunista, verismo / verista, impressionismo / impressionista. I sostantivi in –ista possono indicare anche chi esercita un mestiere (elettricista, pubblicista, specialista). Molto usato il prefisso in negativo che troviamo in inesatto (Foscolo) e in impoetico (Leopardi).

Legato al progresso scientifico-tecnologico è l’uso di alcuni prefissoidi greci che avranno un grandissimo sviluppo nel Novecento. Auto si ritrova non solo in automobile, ma anche in autocommento (Carducci) e autogoverno; foto non solo è il primo elemento di fotografia, ma forma anche altri composti come fotoincisione (processo di preparazione di cliché); lo sviluppo dell’elettrologia fa moltiplicare i composti con elettro per cui oltre a elettricista di poco prima abbiamo elettrodinamica, elettrolisi, elettromagnetismo; lo stesso si può dire di tele che compare in telegrafia, telefono, telegramma.

Infine, si creano nuovi aggettivi derivati da sostantivi già esistenti, come risorgimentale (Carducci) e sensazionale (D’Annunzio), e si incrementa la serie dei sostantivi in –issimo che hanno inizio con Villani (amicissimo), come: banchettissimo, strennissima, veglionissimo.